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Poesie e scritti nel 25° della scomparsa (1991 - 2016)

Pensa 

Spicia simpri plui

Il tò pinsîr

Par fâ simpri miôr

Il to mistîr:

lasant cusì

l’impronta

dal to avignî.

Par cal vive incjimò

Il to paîs

Medita

affina sempre

il tuo pensiero

per svolgere sempre meglio

Il tuo lavoro:

lasciando cosi

l’impronta

del tuo avvenire

perché il tuo paese

viva ancora

PREFAZIONE

 

 

Poche righe a questa raccolta di poesie e scritti di Miro a 25 anni dalla sua scomparsa.

In questo quarto di secolo molti di quelli che l’hanno conosciuto l’hanno ormai raggiunto, in pochi rimane il ricordo, i giovani probabilmente non ne hanno mai sentito parlare. Ed a questi si rivolge in particolare Miro con quell’intento già espresso nei due libretti del 1985 e 1988 e che giustifica anche questo nostro lavoro di ripubblicazione con l’aggiunta di scritti inediti.

In effetti i titoli delle due raccolte stampate dalla Tipografia G. Zorzut di Cormons, erano un invito a non dimenticare:

 

 

a) PAR NO DISMENTEȂ (astu cjapâ pôra mari?) (1985)

b) PAR NO DISMENTEȂ  … E CJALȂ INDEVANT – Storias di Cjargna, di cjargnei … di pais e di tant ingegn) (1988)

 

 

Un primo scopo dunque è quello di ricordare e guardare al futuro; non una semplice nostalgica querimonia, ma una lezione da acquisire come prima tappa per continuare su quella strada che Miro ha cercato di tracciare. E sono eventi, storie, quadretti, inseriti in un ambiente di piccolo paese di montagna in cui forma costante per i più era la miseria, la fame, l’emigrazione, la disoccupazione. Piccole storie, episodi, che tuttavia riflettevano la grande storia dei rivolgimenti economici, politici, bellici internazionali, che sullo sfondo dunque condizionavano la vita di questi uomini a volte generando speranze, idee, impegno politico. Le situazioni descritte raramente sono isolate dal contesto generale, raramente sono bucolici montani idilli cui Miro a volte si lascia andare, trovando un momento di pace nella sua continua tensione di lotta. In generale, se non esplicitamente, ma sempre in sottofondo, nello scritto permane la necessità di ricondurre il momento alla realtà vissuta; cogliere questo richiamo a volte è difficoltoso, richiede attenzione e conoscenza in toto dell’ambiente e dell’esistenza di Miro, e di molti come lui, vissuti in un mondo che formalmente oggi si dice cambiato, ma che nella sostanza rimane il medesimo.

Considerando in uno dei suoi diari la condizione di sua madre che nella miseria aveva dovuto soccombere a due guerre mondiali, con le preoccupazioni per il marito e i figli al fronte o nei boschi al riparo dei cosacchi, e nel profilarsi di una terza (siamo nei periodi della guerra fredda), il Nostro conclude:

 

Sarebbe troppo per te: tre guerre per una donna, una madre che tutto ha sacrificato. Eppure come te ce ne sono ancora, ce ne sono tante, che ancora oggi danno la propria vita per i loro figli, ed assieme a loro magari con i più piccoli in braccio muoiono. Sono vietnamite, sono greche, sono indonesiane; ieri erano coreane, algerine, congolesi” (5 Giugno 1967).

 

Mentre scriviamo compaiono sui giornali le notizie dell’ennesimo naufragio di migranti in fuga dalla miseria e dalla guerra. Madri e bambini rimangono sui fondali del Mediterraneo, quotidianamente, in barba agli inconcludenti summit locali ed Europei (Miro direbbe “mentre i politici parlamentano”). E queste sono le madri e figli cui si rivolgeva il Nostro negli anni sessanta: dalla sofferenza della madre carnica presa a simbolo si ergeva a considerare tutte le madri indistintamente e che in quel momento storico erano le madri vietnamite, greche, algerine, coreane. Ora sono siriane, libiche, nigeriane, somale, eritree: sono le madri che soffrono e muoiono con la loro prole quali vittime non della intrinseca malvagità umana o dello scontro di civiltà o fedi religiose, ma di un sistema sociale che sulla carta proclama sacri ed inviolabili i diritti umani, ma che di inviolabile e sacro ha solo il profitto. Ecco il nuovo mondo! Miro di questo era consapevole ed ha intravisto, nei suoi limiti, la necessità di trasmettere a coloro che verranno la sua esperienza.

Egli non faceva parte della schiera degli intellettuali, anzi li aborriva visto che molti di loro scrivono senza sapere quello che scrivono (Scrivi), ma un operaio che nei momenti liberi cercava di lasciare una testimonianza di quello che sentiva, nel cervello e nel cuore, ed aveva fatto nel corso della sua vita. E la sua vita è stata essenzialmente una vita di lotta, di impegno politico, con un battesimo di presa di coscienza nel lontano 1936 a Milano e terminata a Trieste poche settimane prima della sua dipartita.

Si è impadronito di quel filo rosso già in gioventù, sotto la dittatura fascista, ed ha cercato per più di 50 anni non solo di tenerlo ben stretto, ma di annodarlo con altri. Alcuni nodi si sono sciolti dileguandosi nella mediocrità esistenziale imposta dal sistema, altri avevano la pretesa di rappresentare quello che Miro in fondo non sentiva.

Nell’Almanacco Culturale della Carnia” (VI – 1991) sono state pubblicate sette poesie di Miro precedute dalla dicitura “STORIAS DI ORDENARIA SCUNFITA” (Storie di ordinaria sconfitta). Questo senso di “sconfitta” da un certo punto di vista è condivisibile: l’uomo Miro ha visto infrangersi le sue aspirazioni di giustizia sociale (L’aniversari dai trenta agns), e per un individuo che ha rischiato la vita di fronte al plotone di esecuzione cosacco, può ben considerarsi una sconfitta ed umiliazione non essere più riconosciuto dai compagni partigiani che nel tempo hanno raggiunto comode posizioni e preferiscono dimenticare il passato (Dimenticati). Nonostante queste “regolari sconfitte” Miro non si è arreso, non ha ceduto, non ha piegato la testa di fronte al potere che in tutte le sue forme, anche insidiose, cerca di corromperti (La Politica). In questo risiede non la sua sconfitta, ma la sua vittoria, nel seguire incessantemente, senza rimpianti né debolezze, quell’opera volta a ricercare e riannodare saldamente quei fili rossi che, nel tempo storico, mai scompariranno, fino a quando le classi sociali oppresse alzeranno il loro sguardo verso il futuro, “a cjalaran indevant”.

 

Alle nuove generazioni questo vuol trasmettere Miro, con le sue semplici parole.

 

Wladimiro De Colle, 2016

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